- Nel 2019 i Rimini Protokoll, collettivo fondato nel 2000 a Berlino con l’intento di usare il teatro per aprire nuove prospettive sulla realtà, hanno portato in scena un robot, la copia identica di un essere umano, nei tratti fisiognomici, negli occhi, nella pelle, nei movimenti, nella gestualità e postura, nel tono della voce. L’androide desta compassione e simpatia, ma anche sospetto e avversione, poiché lo spettatore si trova in una Uncanney valley, in una ‘valle perturbante’, secondo la metafora di Masahiro Mori che dà il titolo alla performance, e che vuole significare lo spazio tra l’uomo e il robot: spazio nel quale più quest’ultimo assomiglia al primo, tanto più i suoi difetti e imperfezioni appaiono mostruosi. L’esperimento dei Rimini Protokoll consiste proprio nell’interrogare il pubblico, nel verificare quale limite bisogna oltrepassare perché l’empatia si trasformi, precipitosamente, in un abisso, in una ‘valle’ profonda di ripulsa. Alla fine della performance dei Rimini Protokoll, gli spettatori sono invitati ad avvicinarsi al robot, osservarlo, sfiorarlo. Solo toccando il robot si percepisce che sia una macchina, si acquisisce consapevolezza, cioè, dello scarto e della differenza con l’essere umano.
- Durante la performance, infatti, gli spettatori sanno di vedere e ascoltare una macchina, ma reagiscono come in presenza di un essere umano; la perfezione tecnica rende il robot in nulla dissimile da un uomo, e perciò il pubblico si identifica con lui, ne ha compassione, sino a che non prevale lo sconcerto, e quindi ne ha paura. Come può una macchina essere così umana? Il problema è cosa si intende per ‘umanità’: la sua umanità consiste, in fin dei conti, non nel fatto che riproduca il modello umano, perché se la macchina fosse immobile e non parlasse il risultato sarebbe diverso; ma nel fatto che riesca a esprimere col ‘corpo’ artificiale le stesse emozioni, la stessa paura verso la malattia da cui è affetto il modello, la stessa capacità di reagire ed esprima la gioia di vivere e resistere di un essere umano. Dunque, la domanda posta dallo spettacolo suona molto diversamente: il robot può certamente imitare le emozioni, questo lo sappiamo, ma può anche esprimerle? Sono possibili le emozioni senza la coscienza di esse? E se sì, che valore ha allora la coscienza individuale, che rende unico ogni essere umano rispetto a tutti gli altri esseri umani?
- Da almeno sessant’anni gli studiosi di intelligenza artificiale ‘educano’ le macchine a riconoscere le emozioni umane, nutrendole di un numero ormai incommensurabile di immagini che descrivono gli uomini in tutte le loro caratteristiche corporee e nei loro stati emotivi. Così le macchine dapprima riconoscono le emozioni, poi le classificano, quindi sanno prevederle, e perciò possono usarle per manipolare i giudizi, i comportamenti, le decisioni degli esseri umani. Quel che accade in noi e fuori di noi potrebbe diventare alla fin fine la conseguenza inconsapevole di una serie di algoritmi, che sussumono una quantità sempre più complessa di dati e informazioni e li pongono in relazione tra loro. Il riconoscimento delle emozioni, sempre più sofisticato quanto più naturali, innumerevoli e casuali sono le immagini delle emozioni che vengono immesse in rete e da lì raccolte, costituisce una categoria del riconoscimento e della schedatura facciale, e serve a costruire strategie per indirizzare le emozioni e soprattutto il loro potere cognitivo. Vi sono dunque aspetti molto inquietanti in tale esasperata mappatura degli stati emozionali: la trasformazione dell’uomo in robot, o meglio in un robot emotivo, parrebbe senza possibilità di ritorno. Questo vuole suggerire la performance dei Rimini Protokoll, questo il senso della domanda che il robot che ne è protagonista pone agli spettatori: ‘se posso funzionare grazie alla tecnologia, perderò la mia umanità?’, una domanda che potrebbe essere espressa diversamente: abbiamo davvero ancora bisogno dell’ uomo, nel momento in cui la macchina agisce come un uomo, prova le stesse emozioni e suscita le stesse emozioni? La macchina mette forse in discussione il ruolo del singolo individuo nel mondo, e nella specie, quella umana, a cui è biologicamente apparentato?
- La domanda non è certo di poco conto, perché riguarda tutto il nostro futuro: come hanno scritto Kate Crawford e Trevor Paglen, che hanno lavorato per anni alla mostra Training Humans (Fondazione Prada, Milano 2019), i set di addestramento dell’intelligenza artificiale finalizzati al riconoscimento delle emozioni, sono pericolosi, perché classificano gli stati emotivi senza riuscire a distinguere tra simulazione e sentimento cosciente dell’emozione, e descrivono gli esseri umani in base a pregiudizi che hanno ragioni storiche e politiche, che pretendono di misurare le caratteristiche morali degli individui, allo scopo di applicare questa immensa ‘mappatura’ alla politica, al mercato, alle indagini giudiziarie, ad esempio. Ma proprio per la pericolosità insita nella mappatura e classificazione degli stati emotivi, studiare la fenomenologia e la storia delle emozioni, studiare la possibilità di riattivarle attraverso un riconoscimento che non si attua grazie a una mera classificazione quantitativa, ma al contrario grazie alla ricostruzione storica, geografica, culturale, e attraverso la consapevolezza e la riflessione razionale dei fattori ambientali che suscitano ed influenzano le emozioni, appare di importanza decisiva.
- In altri termini: oggi più che mai, proprio per effetto del confronto con i progressi dell’intelligenza artificiale e i metodi con i quali viene ‘educata’, bisogna entrare in quegli immensi archivi delle emozioni che sono la letteratura, l’arte e la cultura materiale: queste attività umane non trasmettono dati o informazioni, o non solo, ma un’esperienza che ha una dimensione corporea, che si riattiva nel momento in cui apriamo tali ‘archivi’ e li setacciamo per studiarli. L’arte e la letteratura diventano così archivi del ‘sentire’ del corpo, nostro e altrui, fino a che una narrazione non lo riattiva, ripresentandolo al mondo. Le ‘cose’, grandi e piccole, antiche o contemporanee, attivano modi di ‘sentire’, attraverso cui noi formiamo i nostri giudizi su di essi e sui loro contesti culturali, attraverso cui le comprendiamo: il museo diventa un laboratorio ‘enattivo’ della conoscenza ‘incorporata’ (embodied).
- Fabbricare qualcosa, infatti, manipolare la materia, non significa imprimerle un’intenzione interna alla mente: l’oggetto contiene parte del Sé di chi l’ha fabbricata e non è qualcosa di esterno o estraneo alla coscienza del Sé, tutt’altro. E perciò anche i documenti della cultura materiale, ‘cose’ quotidiane, testi non letterari che vengono da antichità remote, come graffiti ed epigrafi, conservano emozioni, come se fossero congelate, oppure serbano in forma cristallizzata le pratiche che sono servite per enunciarle o sperimentarle. Dai fossili dell’età della pietra alle statue d’età classica alle architetture d’ogni epoca sino ai più compiuti robot umanoidi, le ‘cose’ raccolgono i comportamenti e le percezioni, anche quelle non visive, sviluppati dall’homo sapiens durante la sua evoluzione. Anche le cose ‘raccontano’, ed oltre tutto il loro racconto precede, già solo nella ‘catena operativa’ (il richiamo è a André Leroi-Gourhan) che ha portato alla loro formazione, l’espressione linguistica.
- ‘Archivi’ è termine che può evocare staticità, e perciò qui ha bisogno di essere ulteriormente esplicitato: gli ‘archivi delle emozioni’ di cui qui ci occupiamo sono aperti e in continuo, costante, aggiornamento, non hanno nulla di immutabile e di fisso, perché le emozioni variano insieme alla cultura, al tempo, al luogo, al contesto, all’essere umano che le esprime e le rielabora. Sono ‘archivi mobili’, per così dire, che si scompongono e si riorganizzano nel momento in cui vengono consultati, archivi in continua fase di implementazione e correzione. Al contrario dei data base e dei cataloghi forniti all’intelligenza artificiale, gli ‘archivi delle emozioni’ di cui qui parliamo non servono ad una classificazione, ma ad una messa in discussione, non sono utili per condizionare le emozioni nel presente, ma per evitare che lo siano. Il termine ‘archivio’, nei nostri intendimenti, esprime piuttosto quella distanza, di tempo e psicologica, necessaria per guardare alle emozioni e comprendere cosa significano i modi con cui le riviviamo. Noi non dovremmo mai essere riducibili, infatti, ad una categoria; se attraverso la catalogazione di immagini l’intelligenza artificiale arriva ormai alla possibilità di prevedere i nostri sentimenti, i nostri stati emotivi e dunque le nostre azioni, lo studio di quelle immagini può di converso servire a capire la nostra unicità e imprevedibilità, lo spazio che resta e deve restare tra il robot e l’essere umano, il contenuto di una identità che non può essere mappata attraverso nessundata base. Comprendere il potere dei sentimenti e dei modi attuati nella loro classificazione (si pensi alle teorie di Paul Ekman e all’uso che ne è stato fatto), significa anche ribellarsi a tali modi e alle semplificazioni che necessariamente implicano, significa rivendicare uno spazio individuale di percezione ed anche di simulazione dell’emozione, di rivolta, in fin dei conti, verso chi le emozioni vuole imporle e veicolarle.
- Il compito che ci prefiggiamo sta dunque nell’esplorare questi archivi, che non vuol dire esercitare un’attività razionale e tassonomica, ma nell’identificarsi con essi, nell’immergersi in essi, perché le forme, i modi, la percezione della nostra maniera di sentire il mondo si ripete nel tempo. Così l’ermeneutica letteraria, filologica, teatrale, archeologica, estetica, in continuo confronto con la ‘vita’ e la scienza della vita, si conferma una maniera per conoscere meglio noi stessi e il mondo, quello passato e il presente, per migliorarlo e migliorarci, o perlomeno con tale speranza.
- Del resto, il confronto con la robotica e con l’intelligenza artificiale non risulta necessariamente negativo. Ad esso si deve anche il sorgere, nella riflessione teorica, di una nuova prospettiva che può etichettarsi come post-umanistica, ove post-umano è tutto ciò che segue all’idea tradizionale di uomo, non più adeguata a descrivere le interazioni e le ibridazioni dell’ anthropos con la tecnologia, di cui si ha diffidenza, ma che diventa anche mezzo di soccorso e ausilio, non da ultimo in campo medico. Il prefisso ‘post’ va dunque inteso in senso positivo ad indicare un superamento ed una progressione, ciò che si avvia ad essere ‘meglio dell’umano’. D’altro canto, la perdita di centralità dell’uomo corrisponde ad una crescente rivalutazione della ‘vita’ attorno a lui, ed esige un riposizionamento dell’uomo all’interno di una storia del suo mutuo rapporto con le altre specie, animali e vegetali, e con gli oggetti inanimati. Tale rapporto è corporeo e dunque emotivo.
- Studiare le emozioni e la loro fenomenologia nell’arte, nella letteratura, nella cultura materiale, significa perciò studiare i meccanismi attraverso cui la comunicazione verbale e non verbale sollecita le stesse emozioni che rappresenta, parlando ai corpi nei loro diversi contesti storici, sociali, culturali. Significa d’altro canto interrogarsi su quali processi emotivi abbiano contribuito a formare gli studiosi stessi, innamorati del loro oggetto di studio, in costante dialogo emotivo con essi, su cui proiettano sogni e desideri, e come, cioè attraverso quali pratiche, gli studiosi lascino in eredità, insieme ai loro oggetti di studio, anche le emozioni ad essi correlati.
- Questa rivista si interroga in fin dei conti su quanto gli archivi delle emozioni, nella letteratura, nell’arte, nella cultura materiale, in ogni epoca, dal più remoto passato al presente, possano rivelarci di noi, del nostro immaginario e delle sue potenzialità, delle strategie emotive a cui siamo assoggettati e delle possibilità di opporvisi o trasformarle, della necessità di tener conto di quel che il mondo e le cose in esso riescono a dire, pur senza parole, ed anche a suggerirci, a chiederci, se non a esigere.